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Bratislava - Rodi - Ferramonti

IL VIAGGIO

Bratislava capitale del neonato stato Slovacco, era sede di un importante porto fluviale sul Danubio e nella città era attiva una sezione del Betar sostenuta dalla N.Z.O. Nel corso del 1939 i suoi dirigenti affidarono a due giovani, Zoltan Schalk e Alexander Czitrom l'incarico di acquistare una nave e di organizzarne l'equipaggio, per portare fuori dal paese il maggior numero di ebrei possibile.
La partenza sarebbe dovuta avvenire nell'agosto del 1939, ma numerose difficoltà ritardarono di qualche mese la realizzazione del progetto. Solo nell'inverno del 1939, infatti, un agente bulgaro della N.Z.O - Reuben Franco - potè acquistare nel porto sul Danubio della città rumena di Braila, il piroscafo Stefano adibito in precedenza al trasporto di animali.
L'imbarcazione fu registrata presso la capitaneria di porto bulgara come Pentcho che era il nome di battaglia di Franco; su di essa dovettero essere eseguiti numerosi e costosi lavori di riadattamento, che però non riuscirono a renderla adeguata al viaggio che avrebbe dovuto affrontare fin dal suo spostamento. Per raggiungere Bratislava dal porto in cui era ancorata, infatti, la nave avrebbe dovuto risalire il Danubio ed affrontare le gole denominate Porte di ferro, al confine tra la Serbia e la Romania. Le autorità internazionali preposte al controllo della navigazione ritenevano quel passaggio troppo pericoloso, e solo a fatica Schalk riuscì a vincere la loro opposizione alla partenza ed a far arrivare la nave nel porto dove era attesa.
Nel frattempo Czitrom raccoglieva il gruppo dei partenti, che risultò composto da 407 persone, un numero già troppo elevato rispetto a quello che la nave avrebbe potuto ospitare. I passeggeri erano muniti di passaporti per l'Europa, l'Asia, di certificati per entrare nell'allora Palestina e di un permesso collettivo falso per il Paraguay.
Ultimate le operazioni di imbarco, il Pentcho lasciò Bratislava il 18 maggio del 1940.
Non erano solo le cattive condizioni del natante ad ostacolare l'impresa. L'Inghilterra, perfettamente informata del fatto che il Danubio costituiva una via di fuga degli ebrei dall'Europa verso la Palestina, faceva infatti pressione sui paesi balcanici affinchè fermassero le navi che li trasportavano, se battenti bandiera di un paese rivierasco.
Il governo del primo paese attraversato, l'Ungheria, obbedì a questa richiesta e il Pentcho, giunto a Mohacs, dovette bloccarsi.
Furono le autorità fluviali, anche a seguito dell'intervento dei rappresentati della locale Comunità ebraica, a far rispettare le regole dell'internazionalizzazione del Danubio ed a fare in modo che la nave venisse scortata dalla stessa marina ungherese fino porto jugoslavo di Bezdani .
Qui avvenne l'incontro con un gruppo composto da 101 ebrei polacchi, tedeschi, austriaci i quali erano stati liberati da Dachau a patto che lasciassero la Germania nel più breve tempo possibile. Questi si aggiunsero ai passeggeri già presenti sulla nave, che diventarono, secondo un rapporto inviato da Czitrom alla N.Z.O. di Bucarest, 514.
Rifornimenti di acqua e viveri non mancarono, grazie agli aiuti forniti dalla Comunità israelitica della città, ma si pose il problema del passaggio attraverso le Porte di Ferro per il quale la Commissione internazionale per la navigazione sul Danubio - che temeva che un eventuale naufragio della nave all'interno della strettoia avrebbe provocato l'interruzione della navigazione sul fiume - negava decisamente il permesso. Il Pentcho potè ripartire solo quando il governo di Belgrado inviò un rimorchiatore che scortò la nave attraverso quelle pericolose gole.
Superato questo ostacolo, rimanevano da percorrere il fiume lungo i tratti rivieraschi appartenenti alla Romania ed alla Bulgaria. Entrambe le nazioni erano fortemente ostili all'impresa e cercarono di bloccarla in tutti i modi, principalmente impedendo che la nave ricevesse i rifornimenti che le erano necessari. Il momento più drammatico fu vissuto a Vidin, in Bulgaria: una commissione militare privò la nave della bandiera, lasciandola in uno stato di totale abbandono, tra il porto rumeno di Giurgiu e quello bulgaro di Rushtuk. A quel punto ai migrati non restò altro da fare che innalzare una sorta di bandiera con una grande croce rossa dipinta sopra e, accanto, uno striscione con con su una scritta con la quale si chiedeva aiuto. Più praticamente, qualche giorno dopo, tre giovani lasciarono la nave, attraversarono il fiume a nuoto e, dopo varie peripezie, raggiunsero clandestinamente la città di Rutshuk.
Qui, grazie all'intervento del vescovo presso le autorità locali, riuscirono ad ottenere che la Comunità ebraica della città rifornisse la nave di viveri. A quel punto anche dalla parte rumena arrivarono acqua, carburante ed altri viveri.
Il viaggio potè quindi proseguire, se pure fortunosamente, fino al Mar Nero.
Il 14 settembre 1940 il Pentcho attraccò nel porto di Sulina in Turchia, dove rimase per una settimana.
Superati gli Stretti sotto la scorta di navi turche, la nave tentò di raggiungere il Pireo, ma, intercettata dalla marina greca, fu condotta nel porto di Mitilene, sull'isola di Lesbo dove ai migranti fu consentito di rifocillarsi e riposare.
La Grecia, tuttavia, non poteva farsi carico a lungo della loro presenza, sia per la crisi economica che l'attanagliava, sia perché presa dai preparativi per contrastare l'attacco italiano ritenuto ormai imminente.

IL NAUFRAGIO

Celebrata la Pasqua, la nave riprese il viaggio, dirigendosi verso le isole del Dodecanneso ed entrando, nei primi giorni del mese di ottobre 1940, in acque territoriali italiane presidiate dalla Marina Militare.
Immediatamente intercettata da due MAS, fu scortata, stando ad alcune testimonianze orali, in modo da farle evitare zone minate e avviata verso il male aperto.
Esiste invece documentazione scritta del fatto che, prima di ripartire, essa fu sottoposta a fermo e controlli sull'isola di Stampalia.
Appurato che si trattava di un "mercantile" che trasportava - secondo quanto scrisse De Vecchi, in quel periodo governatore civile e militare di Rodi - "soliti ebrei vaganti nel Mediterraneo verso la Palestina", la nave fu fatta ripartire il 7 ottobre, nonostante che le macchine fossero ormai al limite, l'equipaggio insufficiente e i passeggeri in evidente stato di prostrazione.
Poche ore dopo la partenza la nave si incastrò sugli scogli di un isolotto disabitato - Camilloni, oggi Kamilonisi - a 35 miglia a Nord di Creta e a circa 60 a Ovest di Rodi.
Non ci furono danni alle persone: i naufraghi ebbero il tempo di mettere in salvo i bagagli e qualche provvista, dopo di che il Pentcho affondò.
I soccorsi arrivarono dopo pochi giorni, nonostante i bombardamenti che avevano infuriato sul Dodecanneso: gli inglesi individuarono i naufraghi, avvisarono la Croce Rossa internazionale che, a sua volta, si mise in contatto con Rodi.
A De Vecchi che il 15 ottobre chiedeva a Roma istruzioni su come procedere, facendo notare che "viveri in Egeo sono strettamente razionati", lo Stato Maggiore rispose autorizzando il soccorso ai "500 ebrei naufraghi" ma rassicurando il governatore sul fatto che il Ministero degli Affari Esteri avrebbe chiesto alla Bulgaria - nazione della quale il Pentcho portava la bandiera - di provvedere al reimbarco.
Una nave della Marina, il "Camogli", comandata dal nocchiere di prima classe Carlo Orlandi, raggiunse l'isolotto il 18 ottobre ed iniziò le operazioni di soccorso che andarono avanti per due giorni. Il 20 ottobre tutti i naufraghi erano stati trasportati a Rodi e ricoverati sotto tende montate in tutta fretta nel campo sportivo.
Nei giorni immediatamente successivi, mentre il governo italiano inviava l'ultimatum alla Grecia, De Vecchi continuò ad insistere con Roma perché i naufraghi fossero portati via dall'isola.
Il tentativo di coinvolgere il governo bulgaro ben presto fallì, come quello di chiedere il rimpatrio dei profughi alla Slovacchia ed alla stessa Germania, paesi dai quali la maggioranza di essi proveniva. ii
Nella discussione fu coinvolto anche il Ministero dell'Interno al quale - viste le difficoltà di trasporto opposte in particolare dal governo tedesco all'eventualità di trasferire altrove gli ebrei naufraghi - il Ministero degli Affari Esteri cominciò a ventilare l'ipotesi di un loro spostamento in Italia.

NEL CAMPO

Nell'attesa che la questione si risolvesse, i profughi vennero trasferiti nel campo di San Giovanni, alle porte della città di Rodi, dove fu loro applicato lo stesso regolamento in vigore per i prigionieri egei politicamente sospetti che vi erano stati rinchiusi all'inizio delle ostilità tra l'Italia e la Grecia.
La vigilanza interna al campo era affidata ai carabinieri, il controllo esterno al 201° battaglione camicie nere. Il regolamento stabiliva che non si poteva lasciare il campo per nessun motivo, né avere comunicazioni con l'esterno senza il preventivo assenso del Comandante dei carabinieri. Assolutamente vietato il contatto con i prigionieri politici. Nessuno scritto poteva entrare o uscire dal campo senza nullaosta o verifica dell'Ufficio Polizia.
Le razioni alimentari furono fin dall'inizio scarse, ridotte rispetto a quelle assegnate al resto della popolazione e, tra l'altro, accantonate solo per quattro settimane, nella convinzione, rivelatasi presto errata, che tanto sarebbe durata la permanenza dei naufraghi sull'isola.
Due mesi dopo il naufragio De Vecchi lasciò l'isola, sostituito da Ettore Bastico che rimase in carica fino al luglio del 1941, quando fu nominato governatore della Libia. Gli successe l'ammiraglio Inigo Campioni che dovette affrontare una situazione molto difficile, sia dal punto di vista militare - numerosi, in quel periodo, i bombardamenti da parte inglese - che da quello alimentare.
I naufraghi trascorsero l'inverno sotto le tende, quasi privi di vestiario e coperte, mentre l'ammiraglio continuava a denunciare a Roma quanto la loro presenza incidesse sul consumo delle riserve alimentari dell'isola.
Le organizzazioni assistenziali ebraiche, in primo luogo la DELASEM, per quanto si impegnassero, non riuscivano a rispondere completamente alle esigenze dei profughi che, anzi, si sentivano più sostenuti dalle guardie e dagli abitanti del luogo che dalla loro opera. In particolare alla DELASEM veniva rimproverato il fatto che limitasse il proprio ruolo esclusivamente alla trasmissione degli scarsi aiuti economici che i familiari spedivano ai naufraghi e il fatto che non agisse con più determinazione per consentire ai naufraghi di ripartire verso la loro meta.

CHE FARE

Per molti dei naufraghi Rodi rappresentava solo una tappa - indesiderata - del viaggio iniziato a Bratislava. Per questo motivo, pur nelle condizioni disagiate e a tratti disperate che bisognava affrontare quotidianamente, continuava la ricerca di interventi che avrebbero dovuto consentire loro di lasciare l'isola per dirigersi di nuovo verso la meta prestabilita, cioè l'allora Palestina.
A tener viva questa idea era Alexander Czitrom che, nonostante le limitazioni imposte dalla censura, riusciva a tenersi in contatto con i rappresentanti a tutti i livelli del movimento revisionista.
Le risposte che riceveva erano, però, scoraggianti. Veniva ritenuto del tutto inutile, infatti, sperare in un rilascio da parte della Gran Bretagna di certificati di emigrazione da distribuire a tutti i naufraghi, anche in considerazione del fatto che quelli distribuiti negli anni precedenti erano rimasti inutilizzati da chi li aveva ricevuti, vista l'impossibilità di lasciare l'Europa a causa della guerra.
Una valutazione molto chiara dell'impossibilità di riprendere il viaggio si ritrova in una lettera inviata da Vittorio Valobra, segretario della DELASEM alla sezione della HICEMiii di Bratislava.
In essa vengono esposte innanzitutto le difficoltà insormontabili che rendono del tutto inattuabile una iniziativa di immigrazione illegale (Aliyà bet).
Di seguito Valobra accenna ad un progetto di emigrazione legale, secondo il quale si sarebbe potuto tentare di trasferire i naufraghi in Turchia, nazione neutrale da cui - ammesso che con qualche stratagemma si fosse potuto dimostrare che i naufraghi vi avessero sempre risieduto - si pensava che sarebbe stato più facile ottenere i certificati di immigrazione per tutti.
Anche questo progetto, concludeva lo scrivente, si era rivelato ben presto del tutto impraticabile. La lettera fu inviata anche al campo di Rodi, ma non bastò a scoraggiare Czitrom.
Tutte le sere - secondo quanto veniva riferito a Mittino, il capo dell'Ufficio Centrale Speciale dei carabinieri a Rodi - parlava ai compagni per tener viva la loro fede nel domani e chiamava infedeli coloro che volevano rinunciare al proposito di proseguire per la Palestina quando sarebbe presentata l'opportunità favorevole. Non tutti condividevano questi continui appelli, per cui nel campo si viveva anche un clima di discordia. Tra l'altro si ignorava il fatto che le trattative per l'allontanamento dall'isola di tutto il gruppo iniziate da De Vecchi nell'ottobre del 1940 non erano state mai interrotte.

A FERRAMONTI

Le pressioni per il trasferimento dei naufraghi cominciarono ad avere effetto a partire dalla primavera del 1941, quando, anche a seguito della riapertura del canale di Corinto, iv le comunicazioni con l'Italia erano diventate più agevoli.
Si apriva, finalmente, la possibilità di trasportare i naufraghi "in una parte qualsiasi del Regno, dove il loro mantenimento [avrebbe potuto] essere a carico di un ente ebraico di assistenza" v
Il Ministero degli Affari Esteri, tuttavia, faceva ancora resistenza su un trasferimento in massa, con la motivazione che il numero degli internati ebrei nella penisola era troppo elevatovi e proponeva di portare in Italia solo quelli di nazionalità polacca.
Il governatore Campioni che stava conducendo queste ultime trattative rimase fermo sulle sue posizioni, continuando a chiedere il trasferimento di tutti i naufraghi.
A cedere furono le autorità italiane che, finalmente, richiesero l'elenco contenente le generalità dei naufraghi suddivisi per famiglie "dati indispensabili per poterli sistemare".
Tuttavia fu solo all'inizio del mese di gennaio del 1942 che, finalmente, il Ministero dell'Interno dette l'autorizzazione alla partenza dei "noti profughi da sgomberare".
Il primo trasferimento fu operato dalla motonave Calino che trasportò in prevalenza bambini e persone anziane e giunse a Bari l'11 febbraio del 1942; per il secondo fu impiegato il piroscafo Vesta che, partito qualche settimana dopo, arrivò nel capoluogo pugliese il 15 marzo.
Entro la fine di quel mese, gli ebrei naufraghi della nave Pentcho - in numero di 505 - avevano raggiunto il campo di Ferramonti. Il numero non si discosta molto da quello dei passeggeri che, a Bratislava, erano saliti sul Pentcho, ma è da tener presente che nel corso dei quindici mesi trascorsi a Rodi c'erano state tra di essi sia morti che nascite. Va anche ricordato che a Rodi rimasero i due fratelli Fahn, Rudolf e Sidney, insieme a Regina Sonnenfeld fidanzata del secondo.vii Altri cinque profughi che per vari motivi non erano riusciti a partire, raggiunsero Ferramonti qualche tempo dopo.
Tra il 18 e il 28 marzo successivi le notizie riguardanti tutti gli ebrei trasferiti a Ferramonti vennero girate al Comitato internazionale della Croce Rossa a Ginevra, su richiesta del quale le autorità italiane prepararono gli elenchi dei nuovi interati divisi per nazionalità, come ex cecoslovacchi e polacchi. Dei primi, però, ne risultarono solo 13, mentre i polacchi erano 98, molti meno di quanti segnalati da Rodi a suo tempo, quasi tutti si legge, espulsi o internati dai tedeschi nel 1939 e costretti a consegnare il passaporto ricevendo quello di apolide. viii Quest'ultimo elenco venne inviato il 27 agosto 1942 alla Croce Rossa italiana, che poi lo trasmise a Ginevra. I numeri estremamente bassi di polacchi e cecoslovacchi si possono spiegare con la volontà degli internati di sfuggire alle eventuali richieste di consegna da parte tedesca di ebrei di determinate nazionalità, nel momento in cui fossero cominciate le deportazioni anche dall'Italia, cosa in quel momento da non escludere, visti i precedenti tentativi da parte di Roma di coinvolgere Berlino o Bratislava chiedendo loro il rimpatrio dei naufraghi.


i Il tenente della marina ungherese Zalán Petneházy così descrive le condizioni del Pentcho: "Quello che vidi mi lasciò inorridito. I tubi trasudavano e nella stiva gorgogliava l'acqua. I viveri e l'acqua potabile scarseggiavano; i medicinali, i servizi igienici e le cucine erano quasi inesistenti. Vi erano solo 600 Kg di combustibile che potevano bastare sì e no per raggiungere il confine[…] Il morale dei passeggeri era basso e sfiduciato" Cfr Marco Clementi e Eirini Toliou Gli ultimi ebrei di Rodi … p.13.
ii Il tentativo di rinvio dei naufraghi della nave Pentcho ai paesi di provenienza messo in atto dalle varie autorità ministeriali italiane è analogo a quello condotto qualche settimana prima dalle stesse autorità per un altro gruppo di profughi, i cosiddetti bengasioti dal nome della città libica in cui erano rimasti bloccati durante il loro tentativo di raggiungere l'allora Palestina. Cfr in proposito: Anna Pizzuti, Vite di Carta - Storie di ebrei stranieri internati dal fascismo, Donzelli 1910, p.141 e n.13
iii L'HICEM era una organizzazione che aiutava gli ebrei ad emigrare. L'acronimo HICEM deriva dai nomi delle tre organizzazioni madre: l'HIAS di New York), l'ICA di Parigi) e l'Emigdirect di Berlino). Le sue attività erano finanziate dall' American Joint Distribution Committee (conosciuto come Joint)
iv Con l'armistizio di Salonicco, firmato il 24 aprile del 1941 tra la Grecia e l'Italia, in aiuto della quale era intervenuta anche la Germania, cessarono le ostilità tra gli eserciti, che, però, dovettero fronteggiare una dura lotta partigiana.
v Questo passaggio di un telespresso inviato da Rodi durante le trattative porterebbe a ritenere che il suo estensore ignorasse le disposizioni emanate dal regime nei confronti degli ebrei stranieri per i quali, a partire dal 15 giugno del 1940 era stato previsto l'internamento in campi appositamente predisposti o in località non importanti militarmente ed un sussidio, per quanto minimo, per le loro esigenze.[NdR]
vi Nell'agosto del 1941, quando fu inviata a Rodi questa richiesta del Ministero degli Affari Esteri, il numero degli ebrei stranieri internati nei campi e nelle località era aumentato di poche centinaia rispetto ai 2412 che risultavano internati nell'ottobre del 1940. [Per questa ed altre cifre cfr. Klaus Voigt: Il rifugio precario - Gli esuli in Italia 1933-1945, Ed. La nuova Italia 1996, Vol. II, p.89; il database relativo agli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico pubblicato sul questo sito se ne discosta di poche decine] Stava, però iniziando l'afflusso dei profughi dalla Jugoslavia occupata, il cui numero - in particolare di quelli provenienti dalle Province Dalmate e dalla Provincia di Lubiana - divenne sempre più elevato con il passare dei mesi, toccando il suo apice tra la fine del 1941 e l'inizio del 1942, lo stesso periodo nel quale furono trasferiti a Ferramonti i naufraghi della nave Pentcho.[NdR]
vii I fratelli Fahn e Regina vennero deportati da Rodi ad Auschwitz il 18 luglio del 1944, insieme agli altri ebrei presenti sull'isola
viii L'individuazione della nazionalità degli ebrei stranieri profughi attraverso i documenti d'archivio è, in generale, piuttosto difficoltosa. Sull'argomento si vedano le pagine di introduzione all'inserimento di questo dato nel database presente sul sito.

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